Presa blu non sapeva cosa rispondere. L’aveva lanciata lei quell’accusa, eppure nel momento esatto in cui l’aveva pronunciata aveva sperato con tutto il cuore di potere essere smentita.
E così era stato.
Mr. Vain ricordava tutto, ma proprio tutto, come lo ricordava lei. Come se quei tre anni, quasi quattro secondo Presa Blu, non fossero mai passati.
Erano riusciti a battibeccare pure su quello, su quanto tempo fosse passato, ma quando Mr. Vain le aveva fatto presente che ricordava benissimo l’anno in cui aveva combinato “quel casino” perché era stato lo stesso anno della dipartita di suo papà , lei non aveva più controbattuto.
In fondo non era mai stata un asso in matematica e per quanto avesse esordito piccata con il suo “quasi quattro, se la matematica non è un’opinione…“, quando lui le aveva dato quella risposta aveva taciuto, rendendosi conto di aver fatto male i conti.
E soprattutto era rimasta gelata: dannazione quelle parole facevano ancora male.
Il “casino” e la morte del padre: eventi che si erano succeduti in una sequenza di tempo troppo ravvicinata perché lei non ci trovasse un nesso inequivocabile. Non poteva non considerarlo, anche se chi le stava vicino le aveva ripetuto più volte che il suo comportamento non andava in alcun modo giustificato, né tantomeno perdonato.
Eppure, a distanza di tre anni di silenzio, sebbene Mr. Vain pensasse di essere l’unico a sentirsi in colpa e a doversi ancora scusare per il suo inqualificabile comportamento, non era il solo.
Anche Presa Blu si sentiva terribilmente in colpa per non essergli stata vicino e nonostante la rabbia, l’orgoglio ferito, la profonda delusione, quello che l’aveva ferita di più forse era stato il suo stesso implacabile senso di colpa.
Quel giorno, dopo quasi quattro anni di silenzio, non gli disse nulla.
Rimase lì ad ascoltare scuse e a rinfacciare errori, continuando a ripetergli e a ripetere a se stessa, come fosse un ritornello imparato a memoria, che lui non poteva più nuocerle, che le risposte che cercava se le era date da sola, perché da sola aveva dovuto ricominciare.
Mentiva. A lui e a se stessa.
Aveva ancora bisogno di quelle scuse e, soprattutto, aveva bisogno di essere perdonata anche lei. Per le sue diffidenze, per la sua intransigenza e soprattutto per tutte le sue paralizzanti paure.
Il giorno in cui il mondo di Mr. Vain era crollato sulle sue spalle di finto supereroe, Presa Blu non aveva fatto nulla.
Non era riuscita a dire nulla e soprattutto non era corsa da lui.
Quel mattino di pioggia, “in anni di pioggia”, quando lui le aveva telefonato per metterla al corrente, aveva, persino, esitato prima di rispondere, limitandosi a fissare il cellulare che squillava tra le sue mani tremanti.
Lo aveva lasciato squillare un bel pò prima di decidersi a rispondere, terrorizzata, perché in cuor suo già sapeva cosa lui le avrebbe detto e in risposta a quelle parole non c’erano parole che potessero andar bene.
A volte le parole non possono nulla, ma proprio nulla. Forse qualcosa, molto poco, ma pur sempre qualcosa, possono gli abbracci, la presenza, gli occhi, le mani. È poco, pochissimo, una goccia di amore che annega in un mare di dolore, ma è pur sempre qualcosa.
Le parole, invece, a volte non restituiscono niente, neanche una goccia d’amore in un mare di dolore.
Sono solo parole e rimangono vuote, se restano sole.
In certi momenti contano solo i gesti, le mani che stringono mani, gli abbracci che sostengono chi vorrebbe solo lasciarsi andare, perché il piccolo mondo è crollato e con esso la stupida maschera da eroe.
Parlò poco, cercando di far parlare lui, ma la sua voce fredda e dura disse poco e tagliò corto. No, lei non doveva andare e non poteva fare assolutamente nulla, perché nulla ormai c’era da fare. Lei provò a dire qualcosa, ma le sue parole le suonarono come di circostanza. Improvvisamente si era sentita come un’estranea e non capiva di chi dei due fosse la colpa.
Rimasero d’accordo di sentirsi quella sera, ma quella sera lei non lo aveva richiamato e senza dirgli nulla, era andata in chiesa, da sola, e aveva pregato. E quel gesto le era sembrato, persino, importante perché fatto a sua insaputa, trascinandosi lì con la febbre altissima, mentre fuori diluviava. Così come le era sembrato importante e di grande sensibilità da parte sua, decidere di non raccontargli nulla il giorno prima, quando nella corsa cieca e disperata verso il veterinario, il suo coniglietto le era morto tra le mani.
Non aveva mai toccato la morte con mano. Aveva avuto delle perdite, alcune anche importanti, ma non aveva mai visto la morte così da vicino. Sentirsi inutile e impotente, mentre un piccolo essere va via tra le tue mani. Quel dolore le aveva straziato il cuore in un modo che non aveva mai provato prima d’ora…non riusciva a smettere di piangere…ma…poteva chiamarlo?
Sfogarsi con lui che stava combattendo contro se stesso, in quei giorni terribili in cui non aveva neanche la forza di andare in ospedale ad affrontare quello che ormai sapeva inevitabile?
Quel piccolo, gigante dolore poteva mai essere condiviso con chi sta per affrontarne uno incommensurabilmente più grande?
Il giorno dopo, quando quella telefonata senza una sola lacrima da entrambe le parti, l’aveva lasciata impietrita, aveva capito quanto fosse stata egoista solo ad averlo pensato. E, soprattutto, si rese conto di quanto fosse codarda.
La verità era che anche in un momento del genere le era mancato il coraggio. La paura di non essere voluta, di essere inopportuna e le altre sue paure inconfessabili avevano, ancora una volta, avuto la meglio. No, non era Mr. Vain con il suo “casino”, il solo a dover chiedere scusa.
Gli errori li avevano fatti entrambi.
É sempre così quando finisce una storia d’amore, pensò.
La colpa non è mai da una parte sola e soprattutto che senso ha parlare di colpe?
Sospirò e penso ancora una volta a quella canzone di Niccolò Fabi che proprio Mr. Vain in tempi non sospetti le aveva fatto ascoltare.
La cercò nella libreria multimediale e cliccò su play mentre una lacrima silenziosa le rigava il viso.
Il silenzio imbarazzato
di chi sa di non tornare
la lasciò senza parole.
Della porta che si chiuse
non sentì neanche il rumore
tanto forte era il suono del suo rancore.
Per guardarsi nello specchio
mise l’abito migliore
perché fosse più elegante il suo dolore.
Da quello che le ha sputato addosso
perché non ha detto
perché non ha fatto
ora si sente soffocare.
Quando si comincia a recriminare
è il momento in cui si sta per sparire.
Mimosa
bella
riposa
che il sogno
ti dona
Così pensò al loro primo incontro
alla magia di quell’incanto
alla sua gioia elementare
alle grida di piacere
soffocate dal cuscino
quando un gesto primitivo
si fa divino
e a quella esaltazione del presente
di un amore che ancora non ti ha chiesto niente
niente da sacrificare.
poi del lasciarsi il solito rituale
dove ogni uomo diventa così banale.
Mimosa
bella
riposa
che il sogno
ti dona